Antonio Bagnoli (edizioni Pendragon), “Pasolini e Roversi”
Resoconto di Valentina Grillini e Giulia Negro, 5^O Liceo
Galvani
La prima parte della conferenza tenuta da Antonio Bagnoli sabato 30 gennaio 2016 l'editore, nipote di Roberto Roversi, ci ha illustrato un Pasolini visto dagli occhi
di Roversi, dagli anni del liceo a quelli della separazione, causata dalle
divergenze di pensiero riguardo al ruolo dell’intellettuale nella società. Nella seconda parte si è invece focalizzata l'attenzione sulle molte attività di Roversi, libraio, editore, scrittore e compositore delle parole delle canzoni di Lucio Dalla.
Il momento dell’incontro di queste due personalità si può
ricondurre agli anni dell’adolescenza, durante i quali Pasolini praticava il
calcio, sia dentro che fuori dalle mura scolastiche del liceo ginnasio Luigi
Galvani di Bologna, che entrambi frequentavano.
Pasolini, nato nel 1922, già nel periodo liceale condivideva
con Roversi, un anno più giovane di lui, la passione per la letteratura. Uniti
dal desiderio di confronto conoscono alcuni intellettuali bolognesi, tra i
quali Antonio Meluschi e sua moglie Renata Viganò, che riconoscono la grande
potenzialità dei ragazzi e li sostengono.
Alla coppia Roversi-Pasolini si uniscono altri due ragazzi
della scuola, Luigi Serra e Francesco Leonetti. Insieme discutono di temi
letterari e abbozzano qualche scritto.
Decisiva è poi la data dell’8 settembre 1932 in cui tutti i
giovani italiani vengono chiamati alle armi: Pasolini si trasferisce a Casarsa,
mentre Roversi arruolato passa dalla Germania prima, al Piemonte con i partigiani poi,
per ritornare all’Università di Bologna a guerra conclusa.
L’amicizia riprende negli anni ’50, quando Pasolini e Roversi
riprendono in mano l’idea liceale di fondare una rivista nella quale discutere
e riflettere sulla letteratura che, dopo gli anni del fascismo in cui tutte le
riflessioni non attinenti al regime erano state inibite se non congelate, stava
lentamente ri-acquisendo libertà.
Gli anni ’50, quindi, si presentano come una vera e propria
officina di novità: arrivano molti testi dall’estero, gli aiuti economici degli
Stati Uniti sostengono la ripresa e comincia un processo di globalizzazione
sempre più ampio.
Pasolini e Roversi si inseriscono in questa nuova atmosfera e
fondano, insieme a Leonetti, una rivista. Nel vecchio progetto liceale avevano pensato al titolo “Eredi” per rappresentare la loro idea di giovani che raccolgono l’eredità
letteraria e la trasmettono agli altri. Tuttavia ora alla nuova rivista verrà attribuito il nome “Officina”, significativo per descrivere il luogo in cui le
persone sudano, assemblano oggetti, creano e cambiano la materia. Le scelta di
creare una rivista è influenzata dalla grande importanza che tale mezzo di
comunicazione e divulgazione aveva in quegli anni, in quanto luogo nel quale riprendeva (dopo la
lunga pausa forzata del ventennio), la discussione letteraria che era stata
così viva nel principi del secolo ed era stata interrotta dalla staticità del
dibattito indotta dal regime fascista.
I primi dissidi tra gli intellettuali che partecipano a
"Officina" sorgono riguardo la pubblicazione e il finanziamento per
la rivista. Per sviare questi problemi, Roversi decide di aprire nel 1948 la
libreria antiquaria “Palmaverde”, che dopo vari trasferimenti tra il 1971 e il 1984 avrà sede in via
Castiglione 56 a Bologna e poi in via dei Poeti. La stessa rivista viene pubblicata da Roversi che
sostiene le spese in prima persona.
Tra i tanti temi trattati, ne spicca uno, inedito nella
riflessione letteraria: qual è il ruolo dell’intellettuale contemporaneo?
In quegli anni di illusioni e disillusioni, nate soprattutto
dalle scandalose rivelazioni sui Lager sovietici nel 1956 che avevano fatto
vacillare il comunismo, gli intellettuali con il loro peso sociale esprimevano
le loro idee sulle pagine di “Officina”: sono testi vivi, sfrontati, a volte
provocatori.
Proprio uno di questi testi, però, segna la fine della
rivista: appena stretto l’accordo per la pubblicazione con la casa editrice
Bompiani, all’interno di “Officina” viene pubblicata una serie di epigrammi
scritti proprio da Pasolini, i quali destano un grande scandalo. Essi, infatti,
criticano il papa per non avere prestato attenzione alle condizioni delle
borgate romane e lo additano addirittura come peccatore per non aver fatto
nulla per migliorare la condizione di vita di coloro che abitano la periferia.
L’editore, sconvolto da questo affronto, decide di non
pubblicare più la rivista e Roversi, schiacciato dalla pressione mediatica,
dopo aver acconsentito alla pubblicazione di un ultimo numero già redatto, si
ritira.
Finisce così la collaborazione fra i due letterati, con due
concezioni completamente opposte del ruolo dell’intellettuale nella società.
Pasolini è sfacciato, esibizionista, irriverente, ma soprattutto realista e
sempre in prima linea; Roversi, all’opposto, nei suoi scritti parla attraverso
metafore, a partire dal romanzo “Caccia all’uomo” ambientato nel ‘700 calabrese
che racconta in realtà il secondo dopoguerra, fino ad arrivare a “Campoformio”
in cui, nonostante il realismo più evidente, non rinuncia a un titolo
enigmatico: Campoformio era il trattato firmato da Napoleone che infrangeva la
promessa di consegnare Venezia all’Italia e la cedeva invece all’Austria; un
atto che aveva generato grande delusione, metafora delle speranze disilluse
degli italiani che dopo la Seconda guerra mondiale pensavano di poter
migliorare le condizioni dei poveri schiacciati dai potenti.
La grande cripticità di Roversi è ben descritta dallo stesso
Pasolini che gli dedica una delle “Poesie in forma di rosa” definendolo un
monaco impazzito, che cerca la clausura nella clausura.
Pasolini e Roversi, così diversi l’uno all’altro, dopo la
proficua collaborazione che ha dato origine ad una delle riviste più influenti
del secondo ‘900 italiano, negli anni non hanno più trovato la stessa intesa e
si sono allontanati definitivamente, ad eccezione di qualche corrispondenza
epistolare.
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